Kumbum, la porta del Tibet

Kumbum, la porta del Tibet.

Ho visitato questo luogo che ha dell’incredibile, nel mio viaggio in Cina dell’inverno del 2005, e devo dire di essere rimasto meravigliato dal fatto di trovarlo quasi intatto, al punto di passare praticamente indenne attraverso le furiose devastazioni della Rivoluzione Maoista della fine degli anni ‘50.
Il Monastero di Kumbum, si tramanda nella leggenda tibetana, è il punto di mezzo tra Mongolia e il Tibet.
Si trova al centro della Cina, poco lontano da Xining, in una zona dove la natura lascia generosamente grande spazio al deserto.
Scriveva negli anni ‘40 la mitica viaggiatrice belga-francese Alexandra David-Néel, esploratrice, buddhista e anarchica: “La configurazione della catena montuosa circostante arresta il passaggio delle nuvole, costringendole a girare intorno alla vetta rocciosa formando un mare di nebbia bianca, che poi rotolando dalla cima, forma onde che si scontrano battendo in silenzio contro le celle dei monaci, inghirlandando i pendii boscosi e creando mille paesaggi fantasiosi. Spesso grandinate terribili si scatenano sopra il monastero, a causa, dice un detto della gente di campagna, della malignità dei demoni che cercano di disturbare in tutti i modi la pace dei monaci santi.”
Prima del 1958 in questo gigantesco seminario per tibetani, erano presenti 3600 religiosi, poi con la più flessibile condotta del regime comunista, oggi se ne contano solamente 400.
Il monastero è costantemente sorvegliato dalla polizia.
Ci sono molti pellegrini che vi si recano per alcune ricorrenze, per la numerosa raccolta di immagini sacre buddiste, e per le bellissime Stupas depositarie di reliquie che si trovano nei suoi pressi.
La visita al monastero viene svolta durante le normali attività quotidiane dei religiosi, tanto che capita spesso d’incontrare bambini di 4-5 anni sorridenti che corrono ai loro appuntamenti col cranio completamente rasato e goffissimi nella classica tenuta bordeaux, oppure Lama in recitazione delle preghiere nelle aree deputate a queste cerimonie.
Passando tra le costruzioni ci si imbatte nella timidezza e i grandi sorrisi che celano la natura schiva di questi ragazzi, a cui sinceramente si fatica parecchio a dare un’età.
Sono passato vicino ad un ambiente dove alcuni monaci erano intenti a riscaldare l’acqua per la preparazione del tè nero dentro enormi caldaie di rame di 3 metri di diametro, incise di simboli buddisti. Le stufe erano costruite con fango e paglia alimentate a carbone, e i lama più giovani ne alimentavano continuamente il fuoco. Il fumo che si propagava nell’aria, misto all’acre odore del burro di Yak, permeava ovunque.
Le umili celle dei monaci dove sono entrato, avevano il pavimento in terra battuta, un giaciglio di paglia da un lato, e al centro una nerissima stufa a carbone con sopra la classica pentola del tè caldo che prontamente e con grande generosità loro offrono ai visitatori.
Conclusa la visita al Monastero, pensavo tutto sommato di ritenermi fortunato di essermi incarnato in Italia, perché in questi luoghi del mondo, così affascinanti, sperduti, intrisi di storia e spiritualità, gli abitanti hanno potuto sempre contare solo di una cosa: Lo Yak.
Case fatte di mattoni di sterco di Yak portati a dorso di Yak, vestiti di pelle di Yak, latte di Yak, formaggio di Yak, burro di Yak, se ti va bene ogni tanto la carne di Yak.
La sera stessa infatti, mi sono trovo a cenare in un ristorante con tanto di spettacolo di danze folcloristiche nazional-popolari, sindaco ciucco con tanto di fascia rossa in vita, e distillato impreciso che egli copiosamente versava nei bicchieri degli occidentali presenti dispensando frasi incomprensibili dal classico sapore alticcio, giusto per far festa.
Alla fine della cena chiedendo al gestore cosa mai i cuochi avessero fritto di tanto prelibato in tutti quei piatti, ci è stato risposto che il piatto forte di questo ristorante è il pene di yak, cucinato in differenti, ma a dir poco succulente ricette.
Ragazzi, meglio ‘na pizza bufala e basilico, lasciatemelo dire.

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